La prima ondata del coronavirus ci ha letteralmente colti di sorpresa. Poi, da quell’ultimo di Carnevale quando tutto è iniziato (è del 23 febbraio il primo Dpcm che ha introdotto le prime restrizioni) molto in noi è cambiato. Abbiamo scoperto le mascherine e i gel igienizzanti, ci siamo impratichiti con un certo vocabolario medico, abbiamo fatto un corso (molto) accelerato di applicativi digitali, abbiamo scoperto lo smart-working e gli acquisti on line, ci siamo trovati a discutere se ha senso o meno la celebrazione della messa in streaming, abbiamo assaporato il confronto con la Parola di Dio magari grazie alla lectio di qualche biblista via whatsapp, abbiamo sentito tanto concreta la fragilità della vita pensando ai nostri anziani, ai ragazzi disabili, alle donne e uomini ospitati in casa di riposo, abbiamo tifato per gli infermieri e i medici, abbiamo fatto paragoni sbagliati con le guerre, ci siamo resi conto che l’Unione Europea (alla faccia di tanti populisti) se ci dà 209 miliardi con il Recovery Fund non è poi così male. E in tanti ci siamo ripromessi che nulla sarebbe stato come prima, che saremmo stati diversi, che sì, avevamo capito che siamo una comunità e siamo tutti sulla stessa barca.
Poi arrivò l’estate e con lei l’illusione che tutto fosse passato, affidato alla storia anche se c’era chi continuava ad avvisarci: “Il virus non è scomparso”. E infatti, eccoci qua, con la seconda ondata. In teoria doveva essere relativamente meno problematico visto che la conoscevamo già. Il problema è che siamo diversi noi. Siamo più stanchi, meno ottimisti, meno disposti ad attaccare fuori di casa cartelli con scritto: “Andrà tutto bene”.
E così in tanti si sono trovati a protestare contro le decisioni governative, preoccupati della pandemia sociale ed economica che rischia di mettere in ginocchio il Paese. In tanti ci siamo accorti di quanto preziosa sia la nostra libertà e quanto è innaturale ogni sua limitazione. Ma oltre alla libertà vorremo più sicurezza, più efficacia negli interventi sanitari, più forza nel tracciare il virus. Ricordiamo però anche le proteste contro l’App Immuni per la sua presunta intromissione sui nostri dati sensibili.
Questa seconda ondata sta allora rendendo evidente che la sicurezza sanitaria c’è solo a un prezzo alto (troppo alto?) della libertà. Non possiamo avere tutto e tutto insieme: non si può avere la libertà e al tempo stesso la sicurezza massima. In Cina hanno certo fatto prima. Ma lì c’è un regime autoritario. Siamo disposti a pagare lo stesso prezzo in termini di libertà?
E’ evidente che per governare una emergenza di questa portata ci vogliono anche degli strumenti coercitivi. Ma nelle democrazie devono essere concordati tra diversi soggetti (Stato, Regioni, Comuni), tra diverse forze politiche, con le forze sociali. Questo virus ha fatto emergere, così, anche le fragilità dei sistemi democratici, soprattutto di fronte alle emergenze. In attesa che le nostre democrazie trovino meccanismi per una maggiore efficienza, l’unico fattore che può bilanciare libertà e sicurezza sanitaria è rappresentato dalla responsabilità. La libertà è sostenibile solo se vissuta con responsabilità, quel fattore che dipende esclusivamente da noi e che ci fa ricordare che la salute degli altri dipende anche da noi, e che, se per caso ce lo fossimo dimenticato, siamo, davvero, tutti, sulla stessa barca.
(*) direttore “La voce dei Berici” (Vicenza)

